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compagni di Viaggio

MARCO BERSANI

RIMANIAMO A CASA, MA NON RIMANIAMO IN SILENZIO

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E’ il momento di mettere in campo una grande solidarietà collettiva. L’epidemia di Covid 19 continua a estendersi e il sistema sanitario è a rischio collasso, con il serio pericolo che, se il contagio non si ferma, le fasce più esposte, anziani con patologie pregresse, non possano ricevere le adeguate cure. In questa fase, tutte e tutti dobbiamo assumere la grande responsabilità di fare la nostra parte per fermare il contagio e permettere all’insieme della collettività di poter tornare, in un tempo più o meno lungo, alla normalità.

In questo tempo le nostre vite sono state interamente stravolte e all’ansia generale di essere di fronte a qualcosa che al momento non si riesce a governare si è sommata la necessità di riorganizzare la quotidianità di bambine/i, giovani, adulte/i e anziane/i.

Tutti desideriamo tornare alla normalità, per questo tutti dobbiamo rimanere a casa.

Ma siamo così sicuri di voler tornare alla normalità? Non è esattamente quella normalità la causa principale di dove siamo ora finiti?

Per questo dobbiamo rimanere a casa, ma non dobbiamo assolutamente rimanere in silenzio.

 Proviamo allora a riflettere su alcune cose che questa drammatica esperienza ci ha insegnato.

Usciremo dall’emergenza Covid 19 e ci proporranno la nuova emergenza economico-finanziaria. 

Le misure adottate per fermare il Coronavirus comporteranno una crisi economica paragonabile almeno a quella del 2007/2008. E le misure che verranno proposte per uscirne saranno le medesime: trappola del debito e politiche di austerità. Magari con un governo di unità nazionale per poterle applicare meglio.

Grazie alla trappola del debito, ogni anno paghiamo 60 miliardi di interessi e dal 1980 ne abbiamo già pagati quasi 4000. Possiamo continuare a pensare che il debito pubblico è la priorità o è tempo per rimettere tutto in discussione? Sono le banche e i fondi d’investimento a salvarci dalle emergenze sanitarie?

Grazie alle politiche di austerità abbiamo tagliato tutta la spesa per istruzione, ricerca, sanità, previdenza sociale. Possiamo continuare a pensare che il pareggio di bilancio finanziario venga prima del pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere?

 Deve ripartire l’economia?

Su questo tutti si affannano e reclamano qualsiasi ripartenza purchessia. E c’è chi come Confindustria chiede già di dirottare i fondi del “Green New Deal” sulla realizzazione delle grandi opere. Come se la proliferazione dei virus degli ultimi decenni non fosse esattamente il frutto di un modello economico estrattivo che ha devastato gli equilibri ecologici e che, con la crisi climatica, non potrà che provocare ulteriori conseguenze (quanti virus sono sepolti da millenni nei ghiacci che si stanno sciogliendo?). Possiamo continuare su questo modello o è venuto il momento di una drastica inversione di rotta verso un’economia socialmente ed ecologicamente orientata, con al centro solo l’interesse generale?

 Ora sappiamo cos’è la precarietà

In queste settimane abbiamo tutte/i sperimentato cosa vuol dire la precarietà in senso esistenziale: le nostre certezze, i nostri riti quotidiani, i nostri universi relazionali sono stati messi a soqquadro e tutte/i abbiamo dovuto prendere atto della fragilità intrinseca della vita umana e sociale.

Ma moltissime donne e uomini, esattamente in queste settimane, hanno fatto conti anche più concreti e drammatici su cosa significhi non avere un reddito perché si ha da sempre un lavoro precario e non garantito. Possiamo far ripartire il carrozzone economico basandolo sulla conferma e l’estensione della precarietà? Avere una garanzia di reddito ha a che fare con la salute oppure no?

Ora sappiamo cos’è il mercato

Se c’è una dimostrazione lampante del fallimento del mercato è esattamente quella che stiamo sperimentando in queste settimane. Il possibile collasso del sistema sanitario italiano è stato abbondantemente preparato dal pensiero unico del mercato, quello che ha imposto tagli draconiani alla spesa pubblica sull’altare dei vincoli di bilancio.

Ed è sempre più chiaro come la ricerca scientifica gestita dal mercato si attivi sempre e solo dopo l’emergenza, con l’esigenza di fare profitti sui vaccini, e mai prima perché non vi è alcuna remunerazione dei profitti nella prevenzione.

Il mercato basa le sue leggi sulle capacità economiche delle persone, non riconosce alcun diritto universale. Beni comuni, servizi pubblici e diritti possono continuare ad essere consegnati al mercato?

In fin dei conti, si tratta sempre di democrazia

Tutto quello che ci aspetta dopo l’emergenza sanitaria avrà molto a che fare con la democrazia. Dovremmo fare tesoro del paradosso di questi tempi: oggi viene chiesto a tutte e tutti di farsi carico del bene collettivo della salute e della solidarietà con le fasce più esposte; domani verrà chiesto a tutte e tutti di farsi nuovamente da parte per delegare ogni scelta ai poteri forti, magari ad un governo di unità nazionale (Draghi premier?) che proseguirà nell’espropriazione collettiva di tutto quello che ci appartiene.

Per tutto quanto sopra detto, oggi dobbiamo essere responsabili e rimanere a casa.

Per tutto quanto sopra detto, domani dovremo essere altrettanto responsabili e riempire le piazze.

11 Marzo 2020, https://www.italia.attac.org/rimaniamo-a-casa-ma-non-rimaniamo-in-silenzio/
(Lo striscione della foto sotto il titolo è di SENIGALLIAntifascista)

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TOMASO MONTANARI

EX MALO BONUM

Cosa ci insegna (di buono) il virus

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“Ex malo bonum”, dice Sant’Agostino: e anche dal pessimo coronavirus abbiamo il modo di ricavare qualcosa di buono. La prima condizione perché ciò accada è psicologica, ed è smettere di desiderare un velocissimo, automatico “ritorno alla normalità”. Perché quel che l’epidemia ci svela, è che la nostra normalità non è affatto normale.

Prendiamo il vero spettro che in queste ore si aggira per la Lombardia, anzi per l’Italia, anzi per tutto l’Occidente: il collasso dei sistemi sanitari sotto il peso di troppe emergenze simultanee. Ebbene, quando il panico sarà passato – speriamo senza conseguenze troppo drammatiche – dovremo evitare di far finta di nulla. Dalla metà degli anni Novanta a oggi, i posti-letto pubblici della Lombardia sono stati dimezzati, mentre quelli privati aumentavano in proporzione. Le strutture di ricovero pubbliche e private ormai si equivalgono per numero: e a Milano, Como e Bergamo prevalgono anzi quelle private. È il modello Formigoni: privatizzazione selvaggia, arricchimento privato sulla pelle della salute pubblica. Un modello che ha decisivamente attecchito anche in regioni come Toscana ed Emilia, dove ogni anno il pubblico perde terreno e il privato lo guadagna. L’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale ha confermato che si tratta di un trend nazionale: “In un momento di gravissima difficoltà della sanità pubblica – ha detto Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione – pesantemente segnata dalla carenza e dalla demotivazione del personale, non è accettabile che le agevolazioni fiscali destinate a fondi integrativi e welfare aziendale favoriscano la privatizzazione del Ssn. I dati documentano infatti che siamo di fronte alla progressiva espansione di un servizio sanitario ‘parallelo’ che sottrae denaro pubblico per alimentare anche profitti privati, senza alcuna connotazione di reale integrazione rispetto a quanto già offerto dai livelli essenziali di assistenza”.

È questa la normalità a cui vorremmo subito tornare? Sarebbe una pessima idea, perché sappiamo con certezza che tra pochi anni l’Italia avrà stabile bisogno di un numero di posti letto molto più alto, e di una struttura sanitaria decisamente più efficiente di quella di oggi: nel 2045 l’età media si sarà alzata di cinque anni e gli over 65 saranno oltre il 34 % della popolazione. In altre parole, il virus a cui certamente non scapperemo si chiama vecchiaia: e dovremmo attrezzarci ad affrontarlo ricostruendo la sanità pubblica, in termini di strutture e personale (oggi in Italia abbiamo, per esempio, 5,5 infermieri per 1000 abitanti, quando la media Ocse è di 8,9…).

Ma la lezione del virus non riguarda solo la sanità. Bisognerebbe avere la forza di riflettere sulle impressionanti immagini dei cieli della Cina a febbraio, elaborate dal satellite dell’Esa Sentinel 5, preposto al controllo della qualità dell’aria: il biossido di azoto è diminuito dal 10 al 30%, e non solo a Wuhan ma su tutto il Paese. Per ritrovare un simile dis-inquinamento bisogna risalire alla recessione economica del 2008.

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E la domanda è: non potremmo prendere questo forzato e temporaneo cambio di paradigma come la prova concreta che cambiare è possibile?

Abbiamo paura del contagio, a ragione: ma il cambio climatico e il prossimo collasso del pianeta dovrebbero farci molta più paura. E non è necessario andare in Cina per capire che si tratta di un’emergenza attuale, e non futura: restando alla zona gialla del virus, il bacino del Po e i bacini idrici del Nord Italia sono, ai primi di marzo, già asciutti come d’estate, con conseguenze immaginabili sull’agricoltura.

E dunque: la decrescita obbligata da virus dovrebbe darci la forza di capire che è tempo di consumare di meno, di far viaggiare di meno le merci, di lavorare per un numero minore di ore e così via. Di rinunciare, insomma, a questo devastante modello di crescita infinita.

C’è poi un risvolto tutto italiano di questa lezione: quello che riguarda la decisa frenata della turistificazione di città come Venezia o Firenze, che hanno improvvisamente perso circa la metà delle prenotazioni, e che in questi giorni appaiono belle e accoglienti come non lo erano da trent’anni almeno. Una tragedia economica, un paradiso civile e sociale: possibile che questa clamorosa contraddizione non ci dica qualcosa sulla follia di un modello che distrugge inesorabilmente la “bellezza” che vende? Anche in questo caso, tornare a quella distruttiva “normalità” sarebbe suicida: molto meglio capire che così non possiamo comunque andare avanti.

Ognuno di noi lo ha sperimentato, in un modo o in un altro: per cambiare vita abbiamo spesso bisogno di un trauma. Ebbene, per cambiare vita tutti insieme sarebbe saggio farci bastare questo trauma: il prossimo potrebbe non lasciarcene il tempo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/06/cosa-ci-insegna-di-buono-il-virus/5727375/

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LUCA GIUNTI

IRREVERSIBILE, PRESIDENTE?

TgR Piemonte, venerdì 9 agosto 2019, ore 14:00: Il Presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, in visita al cantiere di Chiomonte, scandisce due volte con determinata soddisfazione: “Ormai l’opera è irreversibile”. Una volta lo ripete anche il cronista Vanni Caratto.

Ora, al di là di come la si pensi sulla Torino-Lione e su altre grandi opere, una riflessione si impone. Perché la categoria “irreversibile” deve essere una qualità positiva? A me sembra, soprattutto in questo momento storico, che si tratti invece di una caratteristica completamente negativa, che andrebbe evitata come la peste, soprattutto da una Politica che volesse essere saggia e lungimirante.

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Cominciamo ad orientarci con il Dizionario Treccani: “irreversìbile, aggettivo detto in genere di qualsiasi cosa che non può essere invertita, rispetto al movimento, all’equivalenza, al rapporto logico, ecc.: moto, direzione, processo, sviluppo, per leggi storiche irreversibili. Usato in chimica, fisica, economia, meccanica, medicina, filosofia”. E poi tuffiamoci nella filosofia, cercando di capire qualcosa della “Scienza postnormale”. Non l’avete mai sentita nominare? Male, molto male. E’ un pensiero importante e innovativo, introdotto da Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz agli inizi degli anni ’90 del ’900 (curiosa coincidenza cronologica: gli stessi anni in cui nasceva la Torino-Lione e la sua opposizione). Vi consiglio caldamente di approfondire, cominciando anche solo da Wikipedia. Qui basta riassumere un paio di fondamenti. Quando siamo di fronte a “fatti incerti, valori in discussione, interessi elevati e decisioni urgenti” (cioè sempre, nel mondo attuale) la scienza normale non può più essere l’unico aiuto, perché ottiene buoni risultati quando il livello di incertezza è basso e gli interessi coinvolti sono limitati. Tradizionalmente, infatti, cerca una verità – per quanto provvisoria – attraverso la semplificazione di fenomeni complessi, la replicabilità in laboratorio e la loro eventuale falsicabilità (sensu Popper).

Se invece l’incertezza è alta e gli interessi in gioco sono tanti ed elevati, questo tipo di scienza non basta più. Poiché esclude per principio le conoscenze dei non esperti e quelle esterne al metodo scientifico classico, utilizza semplificazioni ed assunzioni culturali implicite (spesso condizionate da interessi nascosti) tali da rendere inaffidabili i risultati “scientifici” e spesso negativi i loro effetti. Quando l’elevata incertezza dei dati si aggiunge a conseguenze altamente indeterminate e/o potenzialmente irreversibili, dovrebbe intervenire, appunto, una “Scienza post-normale”. E’ necessario cioè allargare i soggetti incaricati di raccogliere informazioni e di giudicare i documenti e le teorie proposte; non dovrebbero essere solo specialisti appartenenti alla scienza ufficiale di una data materia, ma anche gli studiosi di prospettive minoritarie, gli esperti di altri settori, i cittadini coinvolti (depositari di conoscenze tradizionali non riconosciute dalle dottrine normali o di opzioni socio-politiche originali), nonché tutti i titolari di interessi in gioco. Scopo della Scienza post-normale non è, infatti, raggiungere una qualche “verità” ma di radunare le maggiori informazioni possibili sulla base delle quali assumere decisioni sagge, che tengano conto di tutte le prospettive legittime, producano il più largo consenso praticabile e si ispirino al principio di precauzione. Quindi scelte collettive reversibili, sottoposte a verifiche periodiche che permettano, eventualmente, di fermarsi, di tornare indietro, di scegliere alternative inesplorate, inusuali o, appunto, suggerite da soggetti non istituzionali.

Il Presidente Cirio è uomo di montagna come moltissimi piemontesi. Il primo basilare insegnamento che riceve dai più esperti ogni alpinista alle prime armi, è: se sei in difficoltà, se cambia il tempo, se il tuo compagno non sta bene, TORNA INDIETRO. Non importa se sei a pochi metri dalla meta: torna indietro. Non importa se hai dedicato mesi e quattrini a preparare la scalata o la spedizione: torna indietro! Un consiglio saggio e disinteressato. Uno di quei consigli poco appariscenti che salvano vite umane, bilanci dello stato, dissesti idrogeologici. Un consiglio che non fa andare in televisione o sulle prime pagine dei giornali, dove infatti va la notizia dell’alpinista che non ha seguito il consiglio ed è precipitato – come quella dei soldi sprecati e delle frane cadute, mai quelle dei denari risparmiati e delle alluvioni evitate.

In una parola, questo ammonimento tipicamente sabaudo dice: sii reversibile! Perché ciò che è irreversibile non è mai buono.

Vediamo un elenco volutamente incompleto e irriverente.

Dunque, irreversibile come la Salerno Reggio Calabria, che ingoia da cinquant’anni milioni di soldi pubblici, senza restituirli in un’opera utile e compiuta. Come le “decisione irrevocabili” che Mussolini annunciò il 10 giugno 1940, spedendo il paese in una guerra devastante e perduta. Come l’inchino del capitano Schettino o il dentifricio fuori dal tubetto. Come una bocciatura a scuola o la calvizie. Irreversibile come le verginità perdute o l’arrosto bruciato. Come il calzino rosso nella lavatrice di bianco o la formattazione del pc o la scoreggia nello spazio di bossiana memoria. Come il consumo dei combustibili fossili e i cambiamenti climatici. Irreversibile come il decadimento radioattivo dell’uranio nelle rocce d’Ambin morsicate dalla talpa ormai irrefrenabile. Come la reazione nucleare a catena che ha spianato Hiroshima e Nagasaki, o come lo strategico piano “R” del generale Ripper nel Dottor Stranamore di Kubrik. Come il doppio fallo nel tennis, due poker di sette a pinnacola, il rigore di Baggio nel 1994. Irreversibile come l’entropia, come l’estinzione dei dinosauri, della tigre dai denti a sciabola, del dodo. Come l’Alzheimer, come un cancro non curato, come il mesotelioma provocato dall’amianto, quello che la talpa inarrestabile sveglierà dalle rocce della Val Susa. Irreversibile come la diossina a Seveso, i fanghi dell’ACNA a Cengio, i metalli pesanti a Taranto, i rifiuti tombati in Campania. Come il consumo di suolo in Italia, con il deserto biologico che irreversibilmente asfalto e bitume producono. Come la sterilizzazione, come l’odioso numero tatuato dai nazisti sul braccio dei deportati. Come il coma, lo stupro, l’omicidio. Come la forca e la ghigliottina. Irreversibile come la morte.

L’elenco potrebbe continuare a lungo. Ognuno può aggiungere esempi divertenti o tragici, tutti inesorabilmente negativi. Per ora fermiamoci qui, con l’ultima analogia: irreversibile come il Titanic, Presidente?

Luca Giunti, valsusino reversibile

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BARBARA DEBERNARDI

LEZIONE DI STORIA

Barbara presso il Municipio con degli studenti liceali calabresi in visita ai “sentieri partigiani” sulla montagna di Condove a dicembre 2006

LEZIONE DI STORIA AL LUOGOCOMUNISTA GRAMELLINI TESSERA N°1 DEL TAV-PRIDE

Alcuni di noi – c’è sempre qualche ottimista anche nelle migliori famiglie, pensava che la pur breve frequentazione di Luca Mercalli (sia pure nella parabola discendente di Fabiofazio) avesse giovato a Massimogramellini; che fosse servita a fargli capire se non le ragioni dei No Tav almeno i torti dei Si Tav…Qualche visionario poi si era spinto oltre pensando che “liberato” dalla “sudditanza psicologica” dovuta al giornale della seconda famiglia reale subalpina  (dopo i Savoia) e soprattutto dalla visone in bianco e nero della loro triste testata il tifoso-granata che c’è in lui si potesse gustare finalmente un mondo a colori (granata- ovviamente – essendo approdato alla corte di Urbanocairo).

Niente da fare;  leggere per credere quel che ha scritto il 31 di ottobre, ma – soprattutto quel che gli risponde Barbara Debernardi, valsusina, già sindaca di Condove e tuttora No Tav.

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TORINO È FIERA. CHIEDETE AD ANNIBALE

Di Massimo Granellini , Corriere della Sera, Mercoledì 31 ottobre 2018 (rubrica “il caffè”)

L’orgoglio torinese che si ribella alla decrescita infelice di Chiara & i suoi appendini viene da lontano. Da quando Annibale mise a soqquadro l’intero Nord Italia e un solo villaggio si rifiutò di aprire le porte all’invasore: quello dei Taurini, che vennero distrutti. Poi il vento cambiò e arrivarono le falangi a testuggine tanto care a Gigius Caesar Di Maio, ma i Taurini superstiti non aprirono neanche a loro. Vennero distrutti un’altra volta, però sempre mantenendo la schiena in posizione verticale.

Nella loro lingua il nome «taur» non significa toro, come equivocarono i Romani, che si limitarono a tradurlo in latino. Significa monte. Torino dovrebbe chiamarsi Montagnino e montagnini i suoi abitanti. I quali, anche dopo secoli di migrazioni, conservano le caratteristiche di chi è cresciuto con una catena di vette innevate sullo sfondo: la resilienza, la diffidenza, la dignità.

Quando i moti rivoluzionari del 1848 affogarono e l’Europa intera abrogò le Costituzioni liberali, un solo staterello si rifiutò di accartocciare la propria: il Piemonte di un allora imberbe Vittorio Emanuele II, appena succeduto a Carlo Alberto. All’ambasciatore borbonico che gli suggeriva di uniformarsi al vento reazionario del continente, quel giovanotto di poche e sgrammaticate parole rispose con una spremuta di aulica torinesità: «Le condizioni in cui versa il vostro Stato vi autorizzano più a chiedere consigli che a darne. Nel mio non vi sono né traditori né assassini». E lo mise sovranamente alla porta. I Taurini non avrebbero saputo fare di meglio.

La storia dei «bögianen» è un altro equivoco di traduzione. I soldati piemontesi meritarono l’appellativo durante la battaglia dell’Assietta contro i francesi (1747) perché non si mossero. Nel senso che, di fronte all’avanzata dei trisnonni di Macron, rimasero ai loro posti invece di scappare a gambe levate. Dunque «bögianen» non significa pigro o conservatore, ma coraggioso ai limiti della pazzia (vedi alla voce Annibale). I montagnini sono pazzi, di una follia che sconfina nella creatività. Il progresso tecnologico li esalta fin dai tempi del primo filatoio per la seta di monsù Peyron (fine Seicento), che anticipò la rivoluzione industriale senza averne purtroppo i capitali, e del traforo ferroviario del Fréjus (metà Ottocento), che non si doveva fare e invece si fece, nonostante gli appendini e i grillini esistessero già allora (però esisteva anche Cavour).

A differenza del milanese, che nasce con l’autonomia nel sangue, il torinese ha il culto dell’obbedienza e dell’organizzazione. È stato un contadino e un soldato fin dall’antichità, un impiegato pubblico quando Torino era una capitale, poi un operaio metalmeccanico. Rispetta le gerarchie, ma non è un servo. La fierezza montanara da cui discende gli ha trasmesso un fastidio congenito per i soprusi. Sopporta tutto in silenzio, tranne i prepotenti, specie quelli che si presentano a cavallo di un luogo comune. Ricordate Annibale? Appena un vincente lo minaccia, il montagnino invece di adeguarsi si ribella. Arrivando a fare cose che normalmente detesta, come l’andare in piazza. Durante lo sciopero infinito del 1980, davanti ai cancelli di Mirafiori apparvero dei bollettini ciclostilati dal titolo inequivocabile: «Giù la testa, Capo». Contenevano nomi, indirizzi e targhe automobilistiche dei quadri aziendali Fiat: quasi una segnalazione ai brigatisti in cerca di bersagli. La rabbia si impastò con la paura e produsse il consueto mix di fierezza e follia. I minacciati uscirono allo scoperto, autoconvocandosi in un teatro sulle sponde del Po, da cui poi marciarono verso il centro della città. Partirono in poche migliaia, ma il corteo si ingrossò lungo la strada: impiegati, dirigenti, negozianti che abbassavano le saracinesche per unirsi alla fiumana di cappotti scuri. La famosa marcia dei quarantamila, che forse erano la metà, ma di sicuro pesarono il doppio.

Agli inizi del nuovo millennio l’orgoglio torinese venne messo alla prova un’altra volta. I fratelli Agnelli defunti, la Fiat in rottamazione, la città dei Taurini percorsa da una crisi di identità. Chiunque si sentiva in diritto di insegnarle che cosa avrebbe dovuto fare per uscirne. Però il «bögianen», lo abbiamo detto, si chiama così non perché sta fermo, ma perché non molla. I soldi e i sogni delle Olimpiadi Invernali rimisero in movimento la macchina della cultura, dell’innovazione e persino del divertimento, trasformando il mortorio in movida. Quando la fiaccola olimpica attraversò le strade, moltissimi torinesi erano in lacrime. All’improvviso si scoprivano felici di essere felici. Ed era tale la sorpresa che veniva loro da piangere.

Non immaginatevi però un pianto a dirotto. I torinesi detestano gli eccessi. «Esageruma nen» (non esageriamo) è uno dei loro mantra. Specie quando si arrabbiano. Anche perché di solito si arrabbiano proprio con chi esagera. Ai No Tav che dicono “non si può fare”, i pronipoti dei soldati dell’Assietta e degli operai del Frejus rispondono: “lo abbiamo sempre fatto”.  Troveranno il modo di farlo anche stavolta. Ma senza esagerare. Altrimenti che torinesi sarebbero

Susa: l’arco di Augusto con la storia . incisa su pietra – che portò al foedus aequum, tra l’imperatore e Re Cozio

LA VALLE DI SUSA NON E’ FESSA. CHIEDETE A RE COZIO

Post del Mattino, di Barbara Debernardi, 1 novembre 2018 (rubrica caffé si, ma corretto)

Caro Gramellini,
come in passato ci scambiavamo quasi quotidianamente un “Buongiorno”, sulle pagine della Stampa, ultimamente prendo spesso un “Caffè” con lei sulle pagine del Corriere e in genere ne apprezzo aroma e tostatura. Ieri però quel suo “Caffè macchiato storia” mi è proprio andato di traverso. Un po’ come quando, per sbaglio, anziché zucchero nella tazzina metti due cucchiaini di sale…Per togliermi di bocca quel cattivo sapore provo quindi anch’io a fornirle una mia versione di “Caffè corretto Valsusa”. Cordialmente, B.D.

Che la Valle di Susa sia un corridoio da percorre, più o meno velocemente, anziché una bella cucina in cui vivere o un bella vigna da coltivare, è idea purtroppo antica.
Così la pensava Annibale (scendendo) e così la pensava Giulio Cesare (salendo).
Quest’ultimo si era però dovuto accorgere che le genti del tempo, un po’ come i valsusini di oggi, di farsi attraversare i villaggi e le terre da condottieri proiettati sul futuro e da relative truppe saccheggianti, proprio non ne avevano voglia. La risalita della Valle per Cesare all’epoca non è stata una passeggiata, come egli stesso ammette nel De Bello Gallico (I, 10, 4-5), là dove parla delle popolazioni locali “arroccate sulle alture” e del suo esercito rallentato nella marcia e impegnato “in numerosi combattimenti”.
Il nipote Augusto, memore di quei problemi, per attraversare la Valle è infatti costretto a cambiare strategia: bussa, chiede permesso al re Cozio, sigla con lui un foedus aequum, un patto equo, in cui non c’è un conquistatore che sottomette una terra conquistata, ma l’istituzione di una relazione di amicitia (che implicò anche la possibilità di attraversare la Valle senza patire l’ostilità dei suoi abitanti): così racconta ancora oggi l’Arco di Augusto che domina la città di Susa.
Che la Valle di Susa sia strategica dal punto di vista viario continua a essere un dato di fatto anche in pieno Medio Evo e ben ce lo racconta la storia di Adelaide di Susa.
Quando il marchese di Torino Olderico Manfredi, verso il 1034 muore, gli succede la figlia Adelaide e subito ci si scatena a trovarle marito, per poter controllare lei e soprattutto le strade della sua terra. L’imperatore Corrado le fa quindi sposare il figlio Ermanno, duca di Svevia, per potersi assicurare il libero transito in Valle di Susa. Rimasta vedova dopo appena due anni, Adelaide viene data in moglie, e per le stesse ragioni, prima al marchese Enrico, poi al marchese Oddone di Savoia. E’ proprio alla sua morte che Adelaide, donna colta, indipendente e di carattere, decide di far da sola. “Ego sum comitissa”, così si firma, quando sigla atti, gestisce il suo territorio e scrive lettere a papa Gregorio VII, che le risponde chiamandola “carissima figlia”. “Comitissa”, e per certi cronisti del tempo addirittura “Marchionissa Alpium Cottiarum”, cioè autonoma signora per 30 lunghi anni delle terre valsusine, in un’epoca in cui alle donne era concesso al massimo di essere mogli o madri di qualcuno.

Che le ardite opere di ingegneria -anche in galleria!- in Valle di Susa, se davvero utili, non siano osteggiate, ma addirittura progettate e realizzate, con efficienza e rapidità, è storia altrettanto documentata.
Il minatore Colombano Romeàn nasce in Valle di Susa, alle Ramats, nella seconda metà del 1400 e a lui si deve lo scavo del Gran Pertus,   un acquedotto sotterraneo scavato nella montagna di Chiomonte, per risolvere il problema idrico dell’arido versante segusino, prelevando le acque dalla retrostante conca di Touilles. Romean, stipula il contratto con gli abitanti di Chiomonte, che a loro volta hanno già chiesto l’autorizzazione alla realizzazione della galleria anche ai vicini abitanti di Exilles, e dà inizio ai lavori il 14 ottobre 1526, senza alcun tipo di protesta popolare (forse perché l’opera è condivisa con il territorio, non è dannosa per l’ambiente e viene reputata di comune utilità). L’impegno economico è di 5 fiorini e 12 soldi per ogni tesa (m. 1,786) scavata nella roccia. Colombano per realizzare i 433 metri del Gran Pertus, a oggi funzionante e non ancora crollato sotto il peso dei secoli, impiegò circa 7 anni, con una media di 20 cm. al giorno.
Un costo ragionevole e un ritmo di lavoro decisamente maggiore rispetto a quello adottato negli ultimi 25 anni per le opere propedeutiche alla realizzazione del tunnel TAV (che ancora non ha visto inizio).
Infine, che la Valle di Susa sia perfettamente consapevole di quanto strategica sia una ferrovia, lo racconta una storia più recente. All’una di notte del 29 dicembre del 1943 saltava in aria il Ponte ferroviario dell’Arnodera, per mano del prete partigiano Francesco Foglia di Novalesa, nome di battaglia: don Dinamite. Il Comando tedesco suo malgrado fu costretto a definire il colpo “un’opera d’arte” e gli anglo americani lo riconobbero come il più importante atto di sabotaggio compiuto dai partigiani dell’Europa occupata. Atto compiuto da partigiani valsusini appartenenti a quelle brigate che il 25 aprile del 1945, all’ordine in codice “Aldo dice: 26X1. Stop. Applicate piano E 27. Stop” dalla Valle di Susa scesero a liberare Torino.
E’ bene che quei torinesi, pronipoti dei soldati dell’Assietta e degli operai del Frejus, convinti di poter fare il TAV, ricordino che la Valle di Susa è fatta di figlie di Adelaide, parenti di don Foglia, nipoti di Colombano e pronipoti di Cozio.

PS
Per pubblicare l’articolo non poteva essere scelta data peggiore.
Ho trascorso il 31 ottobre del 2005, da prima dell’alba a ben dopo il tramonto, su uno stretto ponticello in mezzo ai boschi valsusini, sospeso in alto sul torrente Seghino, per impedire l’esproprio di terreni destinati ai sondaggi geognostici per il TAV.
Quel giorno un rappresentante delle Forze dell’Ordine, strattonandomi la fascia tricolore, mi ha detto che lì non rappresentavo proprio nessuno. Mi sono indignata, ma non mi sono spostata. Forse sono stata anch’io una “bogianen”.
Un altro rappresentante dello Stato, quando ormai era già buio, ben sapendo che un esproprio notturno non può essere fatto, ha garantito a me e ai miei colleghi Sindaci che le operazioni sarebbero state rimandate ad altra data. Nonostante tutto, ci siamo fidati.
Il mattino dopo, esattamente 13 anni fa, la Valle di Susa ha scoperto di essere stata tradita: di notte, come solo i ladri e i malfattori fanno, i terreni che avevamo difeso di giorno, erano stati transennati e occupati dalle Forse dell’Ordine. E per entrare nei cimiteri di quella porzione di Stato italiano che si chiama Valle di Susa in quei giorni è stato necessario presentare una carta d’identità e dimostrare di essere residenti. E’ bene che ricordino anche questo quei torinesi “SI TAV” che in questi giorni tanto si agitano, ma che 13 anni fa non hanno battuto ciglio e che certamente non possono dirsi pronipoti di Cavour, di Einaudi e di tanti galantuomini del passato.

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LUCA GIUNTI e SIMONE FRANCHINO

I QUATTRO ELEMENTI

Fiammate gigantesche divorano la pineta e i tralicci a Mompantero (foto Luca Giunti)

Finalmente, piove. E’ purtroppo poca l’Acqua che scende dal cielo, ma almeno ingrigisce l’orizzonte che per troppo tempo è stato limpido e oscenamente luminoso. Due settimane fa, l’Aria aggressiva e annunciata ha alimentato il Fuoco divoratore che si è mangiato mezza montagna. Finita l’abbuffata di alberi, pascoli, case, animali, la Terra è rimasta calda, incenerita, marrone, morta.

Ho volutamente scritto con le iniziali maiuscole i quattro elementi costituenti il mondo – aria, acqua, terra e fuoco – sui quali la Filosofia ragiona fin dai classici greci (anche se Empedocle in verità era di Agrigento). Durante le lunghe ore di servizio e le pause dalla concitazione, mi è sembrato che la Natura ritornasse ad uno stato primordiale, ad una concretezza basica, ai costituenti fondamentali e primigeni. Come se stesse mandando messaggi con un T9 facilitato, con 4 emoticons essenziali, in modo da farsi comprendere anche dai più ottusi. Noi.
Ci sta dicendo, senza tanti giri di parole: “Caro Homo sapiens, nonostante tutta la tua onnipotenza e prosopopea, comando io. In un minuto – e Io conto il Tempo in milioni di anni – posso annichilire senza sforzo tutti voi e ogni vostra costruzione. Vuoi una nuova dimostrazione? Oggi faccio piovere poco, qui in Piemonte, ma già in Liguria c’è allarme per l’arrivo di nubi gonfie e potenti. Se le faccio scaricare sul terreno bruciato e mineralizzato, arrivano le alluvioni e le frane – altra Acqua e altra Terra. Le hai conosciute tante volte, caro Homo sapiens, ma non hai imparato alcuna lezione.
Le piaghe d’Egitto della Bibbia le ho inventate io (e la processionaria non è tanto diversa dalle cavallette…). Io non sono un Dio capriccioso e volubile, ma paziente ed equilibrato. Tu, però, stai esagerando e, soprattutto, non capisci. Continui a non capire. Cosa credi, che lo smog e le polveri che avete inalato per mesi evaporino con un po’ di Acqua in sospensione? Scompariranno dai filtri di controllo e così toglierete ogni blocco, stupidamente felici di poter continuare come prima, come se l’Aria fosse di colpo purificata. Sciocchi che siete, le mangerete al primo raccolto dalla Terra.
Allora, basta. Siamo alle battute finali. O cambiate, subito e profondamente il vostro modo di stare al mondo, o il mondo vi spazzerà via.” Il rovinoso manifestarsi degli elementi naturali è un continuo rimprovero alla nostra eterna hybris.
Da venticinque secoli la Filosofia occidentale si interroga sul mondo, sull’umanità e sul modo di stare al mondo dell’umanità. Studia il Fuoco, l’Acqua, la Terra, l’Aria e l’Uomo. Allora, di fronte alla devastante dimostrazione della crisi climatica e sociale dispiegata sulle nostre montagne, è necessario fare come i filosofi 2500 anni fa: porre domande scomode e fondamentali, interrogare se stessi, studiare le cause, formulare principi, ragionare insieme.
Valle di Susa, Domenica 5 novembre 2017 – Luca Giunti e Simone Franchino

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LISA ARIEMMA:

VERSO UNA CITTADINANZA MEDITERRANEA

Che c’entra la Valsusa? Ma che c’entra la Val di Susa con il Mediterraneo? A coloro che numerosi mi ponevano questa domanda quando dicevo che andavo a intervistare i No TAV per il mio libro, avrei voluto rispondere che il Mediterraneo è un mare circondato da montagne, dove il monte Athos come Jabal Lubnān, il Mongibello come Jabal Akhdhar a oriente di Benghazi, la Sierra Nevada e la catena dell’Atlas che attraversa il Maghreb parallela alla costa fanno da specchio alla natura e alla storia di questo mare chiuso. Certo dalla Valsusa non si vede il mare, ma la sua straordinaria biovidersità è la sintesi dell’incontro tra la vegetazione delle Alpi Marittime e quella delle Alpi Cozie e Centrali. Sul versante esposto a sud potresti immaginarti sui Nebrodi tra lecci e ginepri, e su quello esposto a nord ombrosi faggi e castagni fanno posto alle conifere con l’altitudine. “Che c’entra con le dinamiche socio-culturali del Mediterraneo?” – mi chiedevano altri. Risparmiavo loro la tesi secondo cui Annibale sarebbe transitato per il valico di Monginevro nel 218 a.C., e chiedevo di darmi tempo.

La valle di Susa per chi vi si affaccia provenendo da Torino (foto Cg)

E’ l’incipit di un lungo capitolo che Gianluca Solera ha dedicato al suo passaggio a nordovest di ritorno da Alessandria d’Egitto dove aveva vissuto oltre un decennio occupandosi (per conto della Fondazione Anna Lindh per il dialogo tra culture)di migranti e del loro sempre più difficile  approdo nel sempre più vecchio continente.

E dal fortunato incontro con Gianluca ha preso avvio il lavoro di Lisa Ariemma, “Valsusina di Toronto” come la definiamo con orgoglio noi cittadini di un “corridoio di passaggio” che in questi ultimi trent’anni hanno costretto anche i viaggiatori più frettolosi e distratti a chiedersi cosa c’è tra la ex capitale industriale italiana (Torino) e le seconde case vuote per undici mesi l’anno che i suoi ricchi abitanti hanno sparso tra Oulx, Bardonecchia e Sestriere. (Imitando – come solo i provinciali fanno – la seconda famiglia reale della città del secondo museo egizio: gli Agnelli succeduti ai Savoia quasi senza soluzione di continuità, e giunti ormai al loro “ramo cadetto” dopo aver consegnato le loro fortune proprio a un italo-canadese, ma domiciliato in Svizzera…).

Dopo un seminario (organizzato qualche anno fa  da Gianluca a Lussemburgo) Lisa, cittadina della più multi-etnica metropoli nordamericana, è stata in Palestina da dove ci ha portato a conoscere – in Valle Abdallah Abu Rahma – uno degli esponenti più perseguitati della resistenza nonviolenta in Cisgiordania e frequenta ormai con passione (ma col rigore scientifico di sociologa) le periodiche iniziative che Gianluca continua a promuovere dall’Italia (dove è ritornato dopo tanti anni divisi tra il nordeuropa e il nordafrica). L’ultima è di questi giorni e si è tenuta tra Reggio Calabria, Messina e Catania. Eccone l’approfondito resoconto. – (Cg.)

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Abdallah Abu Rahma a Ramallah nel novembre 2012 (foto Fabrizio Arietti)

Verso una cittadinanza mediterranea: Un argomento per dimostrarsi all’altezza

di Lisa Ariemma (*)

Attraverso la storia, lo Stretto di Messina è stato luogo d’incontro e di passaggio, dove due mari si uniscono: il Tirreno a ovest e lo Ionio a est, e a causa delle forti e complesse correnti fanno della navigazione una sfida. Sia Giasone e i suoi argonauti sia Ulisse, sono sopravvissuti al passaggio – che è tre kilometri nel punto più stretto – sfidando, con l’aiuto delle dee Teti e Circe, i mostri Carridi, che si nascondevano sull’isola di Sicilia, e Scilla, appostata sul “continente”.

È appropriato, quindi, che una discussione sul futuro dell’Europa e il Mediterraneo si sia svolta lungo questa costa, a Reggio Calabria, come parte della 4ª edizione – dal 5 all’8 ottobre – di SabirMaydan, la componente più intellettuale di SabirFest che si svolge a Messina, Catania e Reggio Calabria. Sabir era una lingua franca parlata lungo le coste del Mediterraneo mischiando francese, spagnolo, arabo, catalano, greco, turco e lingue della penisola italiana come il veneziano e il siciliano. Maydan significa “spazio aperto” in diverse lingue incluso il persiano. In effetti, i partecipanti al convegno rappresentavano una vasta gamma di Paesi: la Grecia, la Libia, la Croazia, l’Egitto, la Spagna e la Turchia, per citarne alcuni.

Quando consideriamo la domanda su quale sarà il futuro dell’Europa e del Mediterraneo, dobbiamo anche valutare se siamo all’altezza di fare fronte alle numerose sfide socio-economiche, culturali e democratiche dei nostri tempi. Non possiamo parlare dell’Europa senza parlare del Mediterraneo poiché esso, è una parte integrante del suo passato, del presente ed è inevitabilmente legato al suo futuro.

SabirMaydan quest’anno si è concentrato sull’accoglienza. All’interno del tema sono presenti concetti centrali quali la migrazione e la cittadinanza, che sono ineluttabilmente connessi tra loro. La natura delle “narrative” che accompagnano questi termini, e come possono formare la maniera nella quale vediamo e interpretiamo il nostro mondo, sono indispensabili per poter capire come il Mediterraneo si rapporti con l’Europa. In questo caso, è stata adoperata la seguente definizione dal dizionario Oxford: “una rappresentazione di una situazione o un processo in una tale maniera da riflettere o confermare una serie di obiettivi o valori nel loro complesso”.

Se consideriamo che l’autorità pubblica dipenda fortemente dalla comunicazione per rendere legittimo il suo potere, il legame tra le narrative giornalistiche e istituzionali diventa importante, poiché entrambi tendono a formare la narrativa dominante che si perpetua nella società civile.

Io sono originaria di Toronto, Canada. La mia nazione ha affrontato una sua sfida quando nell’autunno 2015, il neo-eletto primo ministro Justin Trudeau ha promesso di mantenere l’impegno elettorale di accettare 50.000 profughi siriani nel giro di pochi mesi.

Quello stesso autunno, dopo l’attacco terroristico a Parigi, una moschea in una piccola città canadese chiamata Peterborough è stata incendiata. Tutta la comunità promosse una campagna su Facebook e raccolse in 48 ore i fondi per ricostruire la moschea. All’interno di questo contesto, l’impegno di accomodare un tale flusso di profughi siriani non era certamente senza le sue difficoltà.

A dicembre di quell’anno, l’AD dell’Istituto canadese per la cittadinanza ha scritto un articolo pubblicato nel quotidiano canadese The Globe & Mail. In quell’articolo, ha definito l’abilità del Paese di essere all’altezza di affrontare quel flusso di profughi, una prova collettiva di cittadinanza, e ha riferito come i 250.000 immigranti che arrivano in Canada ogni anno non solo contribuiscono al tessuto culturale della nazione, ma aiutano a mantenere prospera l’economia canadese e a controbattere il declino delle nascite.

Infatti, si stima che entro il 2030, tutta la crescita demografica in Canada sarà dovuta all’immigrazione. Suona famigliare? Secondo un’edizione di luglio dell’Economist, le stime di Eurostat indicano che entro il 2050, la crescita demografica senza l’aiuto della migrazione ci sarà solo in Irlanda, Francia, Norvegia e Regno Unito, mentre la Germania e l’Italia, senza nuovi arrivati, si troveranno di fronte a un declino del 18 e del 16 per cento, rispettivamente.

Quindi, la situazione in Europa è abbastanza simile a quella canadese. Certamente la storia del Canada è molto diversa da quella europea, tuttavia, mostra di essere un esperimento di buone pratiche quando si tratta di accomodare nuovi cittadini, e non credo ci possa fare del male a considerare il modello canadese qui sul Vecchio Continente.

Giovani musicisti e ballerini di Gaza in Val  Susa nel 2014 (fotoFabrizio Arietti)

L’Europa si sta mostrando all’altezza della situazione? Io credo di no. Abbiamo fatto degli accordi con la Turchia e la Libia per poter bloccare migranti e profughi in quei paesi, sottraendoci alla nostra responsabilità collettiva verso migliaia di esseri umani che fuggono da situazioni di vita e morte – probabilmente anche violando convenzioni internazionali – insieme a coloro che semplicemente sognano una vita piena di speranze; come gli oltre 57.000 italiani che attualmente lavorano nel Regno Unito.

La differenza è che, mentre gli italiani che guardano all’Europa in cerca di nuove opportunità hanno semplicemente bisogno di una carta d’identità, i loro coetanei della costa sud del Mediterraneo e oltre devono spesso rischiare la vita per farlo. Infatti, la rotta Mediterranea è la più pericolosa per i migranti a livello globale. Secondo il rapporto sull’andamento della migrazione 2015 dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), le fatalità registrate nel Mediterraneo sono state 3.777. Solo l’area del Sud-est Asia si avvicina a questi dati con 789 morti.

Il modo in cui affrontiamo le sfide della migrazione e ri-definiamo la cittadinanza in Europa, è chiaramente decisivo per il futuro del continente e le nazioni che condividono le sponde del Mediterraneo. L’Unione Europea (UE) implica la libertà di movimento dei cittadini e un’apertura verso culture diverse. Tuttavia, la migrazione, e il modo come la percepiamo, sta influenzando la nostra libertà di movimento da cittadini dell’UE: mentre le mura si alzano per i migranti, i termini dell’Accordo di Schengen si sbriciolano.

Cronache recenti di quest’autunno possono essere collegate a diversi argomenti pertinenti: il referendum in Catalogna, l’attacco a Edmonton, Canada, e la devastante sparatoria a Las Vegas.

Anche se condotto illegalmente, il referendum in Catalogna è stato una specie di prova del nove di come le istituzioni rispondono al rifiuto dello status quo. Mentre solo poco più del 40 per cento della popolazione della Catalogna ha votato, più del 90 per cento di questi ha votato a favore dell’indipendenza dalla Spagna. Il governo spagnolo ha risposto con brutalità – le prime notizie parlavano di più di 800 feriti. Benché sia ancora poco chiaro cosa voglia dire per l’Europa, senza dubbio indica il livello di disagio istituzionale di fronte a una richiesta di cambiamento drammatica.

Ho seguito il recente attacco terroristico a Edmonton durante il quale un poliziotto è stato pugnalato e quattro persone sono state ferite. Nella sua dichiarazione ufficiale, il primo ministro Trudeau ha affermato: “Non possiamo lasciare – e non lasceremo – che la violenza estrema prenda piede nelle nostre comunità. Sappiamo che la forza del Canada viene dalla nostra diversità e non saremo intimiditi da coloro che cercano di dividerci e promuovere la paura …” Nessun gruppo terroristico, zona del mondo o fede religiosa è stata identificata. Il Premier dell’Alberta e il Sindaco di Edmonton hanno seguito l’esempio di Trudeau come hanno fatto anche i giornalisti canadesi.

Durante il viaggio in pullman da Messina all’aeroporto Fontanarossa di Catania, ho viaggiato con un’italiana che lavora con Amnesty International in Tunisia. Abbiamo parlato un po’ del Canada e la risposta istituzionale all’attacco di Edmonton. Mi ha detto che lei e il suo compagno tunisino avevano le lacrime agli occhi nel vedere il sindaco di Edmonton insieme a un imam che parlavano della “nostra” comunità mussulmana dopo l’attacco. Non avevano mai visto una cosa del genere prima.

Nel frattempo, in Italia a Ventimiglia, diventata un punto caldo per i migranti e profughi che cercavano di andare dall’Italia alla Francia nel 2016, il giornale Libero è riuscito a collegare la crisi umanitaria al terrorismo argomentando che “jihadisti stavano fomentando i richiedenti asilo mussulmani a ribellarsi contro la polizia”. Questo tipo di narrativa rende molto difficile raccogliere il consenso per l’idea di trasformare i migranti in cittadini.

Abdallah Abu Rahma alle reti del cantiere Tav di Chiomonte nel gennaio 2013: “Qui è come da noi!” (foto Cg)

Ma guardiamo agli Stati Uniti e consideriamo il decreto del Presidente Donald Trump lo scorso febbraio che vieta l’accesso in quel Paese a cittadini provenenti dall’Iran, l’Iraq, la Libia, la Somalia, il Sudan, la Siria e lo Yemen. Nelle sue dichiarazioni Trump ha detto che chiedeva “un totale e completo fermo all’accesso di mussulmani negli Stati Uniti.”

Eppure, se guardiamo le statistiche raccolte dall’Huffington Post, il numero di morti connessi alla violenza causata da armi da fuoco private è molto più alto di quelli causati dal terrorismo. La recente tragica sparatoria a Las Vegas – con 59 morti e più di 500 feriti – lo dimostra chiaramente. Con l’eccezione del 2001, il numero di americani uccisi da terroristi dall’11 settembre non ha mai superato i 100 in un anno e, nel corso di 10 anni (2005-2014), aveva una media di nove per anno. Durante lo stesso periodo, il numero di americani uccisi da armi da fuoco private non è mai sceso sotto i 10.000.

Lo stesso è valido se guardiamo le statistiche globali sul terrorismo e consideriamo l’Europa in particolare. Secondo l’Indice globale sul terrorismo del 2016, i primi cinque Paesi colpiti dal terrorismo sono: l’Iraq, l’Afghanistan, la Nigeria, il Pakistan e la Siria. Il primo Paese europeo che appare sull’elenco è la Francia al numero 29. Gli Stati Uniti sono collocati al numero 36, mentre il Canada e l’Italia sono 66 e 69 rispettivamente. Mentre questo non giustifica, né condona nessun atto di violenza, fornisce un’idea più chiara dei numeri veri dietro gli attacchi terroristici.

Nello stesso tempo, un’analisi a lungo termine del terrorismo in Europa, che considera il periodo dagli anni 1970 ai 1990, illustra che il fenomeno non è nuovo sul continente e ha prodotto più danni durante quel periodo che oggi. A marzo 2016, un articolo su La Stampa ha riportato elementi della Banca dati del terrorismo globale indicando che il numero di atti terroristici in quel periodo era sensibilmente più alto, e il numero di vittime, all’apice, era quasi il doppio degli anni peggiori dopo il 2001.

Queste lacune d’informazione si trasferiscono nelle statistiche sui migranti. Mentre il presidente della regione Lombardia Roberto Maroni lamentava “l’invasione” che si sta svolgendo, il Dossier immigrazione 2016 indica che c’erano più italiani all’estero (5,5 milioni) che residenti stranieri in Italia (5.026.000) nel 2015. Per metterlo in prospettiva, nel 2016 l’Italia ha affrontato l’arrivo di 130.000 migranti, tanti dei quali sono destinati a essere ri-collocati in altri Paesi europei, mentre l’Uganda ne ha gestiti 750.000.

Inoltre, il rapporto 2015 sulle tendenze della migrazione globale dell’OIM ha notato che la maggior parte dei migranti irregolari che vivono in Europa sono “persone che si sono trattenute” con visti scaduti ma che sono entrati in Europa regolarmente.

Come rientra tutto questo nel quadro della migrazione? Con l’accordo UE con la Turchia, la quale Amnesty International ha dichiarato “un luogo non sicuro per i profughi”, la rotta dei Balcani è stata effettivamente chiusa. Più recentemente, l’accordo con la Libia, ritenuta una politica che causerebbe “sofferenze orrende” da Amnesty International, ha, in effetti, bloccato la rotta Mediterranea verso Malta e l’Italia dalla Libia, intrappolando migliaia di persone in condizioni di vita brutali.

Eppure, nel 2015 l’Europa ha accolto circa un milione di profughi, lo 0,2 per cento della popolazione. Ciò nonostante, le iniziative di ri-collocamento dell’UE sono rimaste, a dir poco, un fallimento. Come parte del meccanismo di risposta all’emergenza dell’UE nel 2015, delle 60.000 persone da ri-collocare in Francia, Olanda, Germania, Polonia e Ungheria, 1.415 erano stati sistemati a luglio 2016. A settembre di quest’anno, l’UE ha fatto un altro sforzo per ri-distribuire i profughi di Grecia e Italia, nel resto dell’Europa: vedremo come andrà a finire nei prossimi mesi.

Come nota il rapporto dell’OIM, contrariamente a quanto spesso raccontato nei media, in tutte le regioni del mondo – con l’eccezione importante dell’Europa – le persone sono più a favore che contrarie alla migrazione. I residenti europei sono, in media, i più negativi verso l’immigrazione globale, quindi c’è del lavoro da fare per convincere gli europei che questi potenziali nuovi cittadini sono un vantaggio e non un danno. E una parte di questo impegno è cambiare le narrative, fornendo contro-informazione a quello che domina nelle istituzioni e nelle notizie.

Tra le sessioni del convegno, ho avuto l’occasione di visitare alcuni siti culturali: il Museo regionale interdisciplinare di Messina e il Museo nazionale della Magna Greca di Reggio Calabria. La bellezza, il genio, la diversità estetica e la gamma d’innovazione dei dipinti, delle sculture, dei mosaici e dei relitti archeologici nei musei mi hanno confermato lo stato naturale del Mediterraneo come una culla multiculturale di civiltà: normanna, veneziana, romana, araba, germanica, greca. Inoltre influenze da culture meno conosciute, sono notevoli. Storicamente, molto di questo mescolare era imposto. Ciò su cui un gruppo di cittadini mediterranei e altrove, incluso me stessa, sta lavorando oggi, è un ritorno a questo mescolare, ma per scelta.

Il museo di Reggio Calabria ospita anche i bronzi di Riace, due statue di dei guerrieri greci di 2.500 anni fa, recuperati sulle coste calabresi al fondo del Mare Ionio, 45 anni fa. Direi di aver provato una versione più lieve della Sindrome di Stendhal: un disturbo psicosomatico che causa forti reazioni nel vedere capolavori. Mentre giravo attorno ai guerrieri nudi e alti quasi due metri, all’improvviso e inspiegabilmente, delle lacrime scorrevano sulle mie guance. Ripensando all’esperienza più tardi, credo che la mia reazione sia stata causata dalla combinazione della straordinaria bellezza dei bronzi con l’idea che qualcuno abbia creato un tale splendore due millenni e mezzo fa. Noi esseri umani siamo creature terribili ma anche meraviglie della natura.

Nel 1941, mentre la brutalità umana della Seconda Guerra Mondiale era in piena furia, il Manifesto di Ventotene è stato scritto da un gruppo di antifascisti in esilio richiedendo “un’Europa libera e unita”. L’ultimo giorno di SabirMaydan, mentre dozzine di persone scomparivano al largo della costa tunisina dove una barca piena di migranti si era scontrata con una nave, un pre-manifesto è stato presentato ad attivisti, partecipanti del convegno e il pubblico intitolato: “Verso un manifesto per la cittadinanza mediterranea”.

Sicuramente, come ha detto il filosofo ghanese-inglese Kwame Anthony Appiah nel suo libro sul cosmopolitanismo, la coesistenza e il rispetto richiedono sia un riguardo universale sia il rispetto per differenze legittime. Questi fattori possono scontrarsi ma forse questa è proprio la sfida per una coesistenza pacifica. Un nuovo tipo di conversazione deve iniziare in Europa e attraverso il Mediterraneo. Come possiamo farlo? Bene, questa è la nostra sfida come persone che credono in un futuro unito dal dialogo, dall’empatia e dalle radici comuni. Dobbiamo cambiare la narrativa per poter aprire porte piuttosto che costruire muri. Dobbiamo iniziare quella conversazione.

(*) Lisa Ariemma è una ricercatrice, scrittrice freelance e attivista  con sede a Meana di Susa, Italia e a Toronto, Canada. È l’unica nordamericana nel gruppo SabirMaydan che sta lavorando sul Manifesto per una cittadinanza mediterranea e per un Mediterraneo libero e unito.

13 ottobre 2017

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PAOLO PRIERI:

IN VIAGGIO VERSO LA PATRIA DELLA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO…CHE HA SMARRITO LA STRADA E LA MEMORIA

Stanotte ottanta cittadine e cittadini in lotta contro le GOII (Grandi Opeer Inutili e Imposte) saranno in viaggio dall’Italia per entrare domani nel Parlamento di Strasburgo e
consegnare alle Istituzioni europee la Sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli <http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=7419>  “Diritti Fondamentali, Partecipazione, delle Comunità Locali e Grandi Opere” – Dal Tav Torino-Lione alla realtà globale.

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Già nel 2007 i cittadini in lotta dalla Valle Susa entrarono in questa Istituzione per consegnare 32.000 firme contro la Torino-Lione. E nel 2010, all’indomani della firma del 23 gennaio dello stesso anno della Carta di Hendaye, manifesto internazionale delle lotte contro le Grandi Opere Inutili e Imposte, cittadini/e in lotta consegnarono questa Carta al’Europarlamento.

Domani i/le cittadini/e in lotta vi entrano nuovamente, non solo per assistere a questo importante atto politico e simbolico, ma per segnalare che la fiducia nel Parlamento europeo esige delle risposte e delle iniziative coraggiose che troppo tardano ad arrivare.
Il Parlamento, unica Istituzione europea elettiva, è debole perché non dispone dell’iniziativa legislativa.
Ci attendiamo tuttavia che questa Istituzione, pur nel limite dei Trattati, operi per le libertà di circolazione delle persone e dei loro diritti, ponendole prima della libertà di circolazione dei capitali e delle merci.

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E’ palese il progressivo sgretolamento dell’Unione europea e il suo conseguente allontanamento dalle cittadine e dai cittadini.
Solo attraverso la riscrittura dei Trattati potrà aumentare la solidarietà tra i popoli all’interno e all’esterno dell’Unione, potranno avanzare i diritti e la democrazia, si potrà assicurare un dignitoso futuro ai cittadini di oggi e di domani, potrà cessare il dominio della Commissione che genera la rovina dell’Europa.
La Sentenza del TPP non ha il potere di condannare i responsabili del Sistema delle Grandi Opere nell’Unione europea con pene afflittive. Il TPP raccomanda le azioni che le Istituzioni europee e gli Stati membri dovrebbero condurre, indica le responsabilità senza dare giudizi storici.
Questo testo dovrebbe essere accolto con il riguardo dovuto verso la saggezza dei suoi estensori, e ascoltato da tutti coloro che sono stati indicati dai cittadini come loro rappresentanti, in Europa e negli Stati membri.
Il Sistema delle Grandi Opere nell’Unione Europea è un esempio di Hybris, che gli antichi Greci indicavano come l’orgogliosa tracotanza degli uomini contro gli dei e che oggi possiamo definire come un atto di superbia controil Pianeta ed i suoi abitanti.
Il poeta Andrea Zanzotto disse: “Una volta avevo orrore dei campi di sterminio, oggi provo lo stesso orrore per lo sterminio dei campi”, egli intendeva la distruzione della Natura.
Nel Sistema delle Grandi Opere si realizza uno sterminio che non si ferma a quello della Natura, ma addirittura lo anticipa con lo sterminio dei diritti realizzato mediante la non applicazione dei principi “volti ad assicurare la partecipazione piena ed effettiva dei cittadini”.
La Sentenza del TPP lo ha provato affermando che “si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali” e che “la responsabilità di queste violazioni deve essere attribuita ai governi, ai promotori dei progetti , alle imprese che li eseguono, e lla stessa Unione europea”.
Ma la Sentenza dice anche che nel Sistema delle Grandi Opere “i governi sono al servizio dei grandi interessi economici e finanziari e sono ignorate le opinioni delle popolazioni”.
“Ciò rappresenta, nel cuore dell’Europa, una minaccia gravissima all’essenza dello stato di diritto e del sistema democratico che deve essere fondato sulla partecipazione e la promozione dei diritti, del benessere e della dignità delle persone”.

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Il Sistema delle Grandi Opere incorpora un’etica di perfezionismo e la
ricerca di tecniche che esaltano l’efficienza per l’efficienza.
E l’economista Serge Latouche ci ricorda che “La tecno-economia è la forma nella quale si incarna al meglio l’immaginario del progresso e contribuisce pienamente all’impostura dell’efficienza.”
E afferma che “la tecnica contribuisce alla banalità del male nell’età moderna”.
Tutto questo ci porta a richiamare alla responsabilità soggettiva coloro che agiscono e decidono nel Sistema delle Grandi Opere, siano essi politici, amministratori, imprenditori, finanzieri o obbedienti burocrati.
Queste persone, variamente collocate all’interno degli apparati pubblici e privati, non pensino di assolversi considerandosi trascinati inconsapevolmente dal fiume della Storia: un giorno dovranno rispondere delle loro decisioni di fronte ad una Magistratura non più solo morale come il TPP.

25 ottobre 2016

Ici la version française – Here the English version:
http://www.presidioeuropa.net/blog/wp-content/uploads/2016/10/Paolo-Prieri-P
residioEuropa-No-TAV-Stop-UMP-Statement-20161022-it-fr-en1.pdf
Cosa accadrà nel Parlamento Europeo il 26 Ottobre ? – Que va-t-il se passer
au Parlement europeen le 26 Octobre ? – What’s happening in the European
Parliament on 26 October 2016 ?
<http://www.presidioeuropa.net/blog/cosa-accadra-nel-parlamento-europeo-il-2
6-ottobre/>
26.10.2016 – STRASBOURG: SENTENZA TPP AL PARLAMENTO EUROPEO – JUGEMENT TPP
AU PARLEMENT EUROPEEN – PPT JUDGMENT TO THE EUROPEAN PARLIAMENT – DOSSIER
PER I MEDIA – DOSSIER POUR LES MEDIAS – MEDIA KIT
<http://www.presidioeuropa.net/blog/26-ottobre-2016-sentenza-tpp-al-parlamen
to-europeo-dossier-media-dossier-pour-les-medias-media-kit/>
26 OTTOBRE 2016 : I cittadini e le cittadine in lotta contro le Grandi Opere
Inutili e Imposte entrano nel Parlamento Europeo per consegnare la Sentenza
del TPP alle Istituzioni Europee – Il programma
<http://www.presidioeuropa.net/blog/movimenti-lotta-contro-le-gooi-strasburg
o-il-26-ottobre-2016/>
26 octobre 2016: Les Citoyennes et les Citoyens en lutte contre les Grands
Projets Inutiles et Imposes entrent dans le Parlement Europeen pour remettre
le Jugement du TPP aux Institutions Europeennes – Le Programme
<http://www.presidioeuropa.net/blog/26-octobre-2016-remise-du-jugement-du-tp
p-aux-institutions-europemposes-%e2%80%93-les-mouvements-en-lutte-contre-les
-gpii-entrent-dans-le-parlement-europeen-de-strasbourg-%e2%80%93-english-ver
sion/>
October 26th, 2016 : The Citizens struggling against the Unnecessary Imposed
Mega Projects enter the European Parliament to present the PPT Judgment to
the European Institutions – The Program
<http://www.presidioeuropa.net/blog/october-26th-2016-presentation-ppt-judgm
ent-european-institutions-%e2%80%93-program-%e2%80%93-movements-struggling-u
nnecessary-imposed-mega-projects-enter-european-parliament/>

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GIANLUCA SOLERA:

INSIDE RISCATTO: “IL TEMPO DELLE GRANDI OPERE E’ FINITO”

Gianluca Solera al cantiere militarizzato di Chiomonte ad agosto del 2012

Una coalizione di espressioni sociali e istituzionali diverse è la forza di questo movimento: in ogni paese c’è un comitato che nomina una persona che partecipa al coordinamento dei comitati, guidato da Alberto Perino, il nuovo tessitore di reti dei NO TAV; poi ci sono i nove presidi, uno per paese, nelle aree delle trivellazioni, veri controabusi edilizi agli abusi edilizi delle trivellazioni, con venti-trenta persone per presidio; i sindaci della valle; i tecnici della Comunità montana rigorosamente non-profit che confutano progetti, analisi costi/benefici e valutazioni d’impatto; i Cattolici per la vita della valle; i centri sociali che fanno riferimento al centro torinese Askatasuna; Presidio Europa; e gli anarco-insurrezionalisti di Alpi libere, con non più di quaranta esponenti. L’ultima grande manifestazione popolare, la marcia Bussoleno-Susa del 25 febbraio 2012, nonostante la militarizzazione della valle ha visto la partecipazione di più di sessantamila persone. E i mezzi di informazione continuano a parlare di una frangia di estremisti. Perché? Perché l’allora ministro degli interni Cancellieri ha dichiarato che ≪la TAV è la madre di tutte le nostre preoccupazioni ? E non la criminalità organizzata, o l’immigrazione illegale, o la corruzione nell’amministrazione pubblica, o il degrado ambientale?

Sabine Brautigam interviene sotto lo striscione di Presidio Europa No Tav al meeting di Firenze a ottobre 2014

Il movimento NO TAV è diventato un pericolo per il “Sistema Italia” considera Sabine Bräutigam. Ognuno di quelli che hanno aderito al movimento aveva la sua motivazione per dire no al treno; ora, non si tratta più di un movimento semplicemente contro il treno, ma contro lo sviluppo guidato dalla finanza. Eh? Un brivido mi percorre la schiena. Qui la gente ha detto: “Basta, facciamo noi. Non abbiamo più bisogno dei partiti”. E tra molti amministratori locali è cambiata la cultura politica, e consultazione e partecipazione collettiva sono diventate pratica comune. È stato il rifiuto di accettare la politica dall’alto che ha fatto perdere Mercedes Bresso alle regionali del 2010.

Non avrei mai scommesso sulla capacità di durata di questo movimento mi confessava Claudio Giorno la mattina a colazione. Noi abbiamo già stravinto, ma ora dobbiamo andare oltre. Dal mio punto di vista, non si tratta più semplicemente di impedire un’opera, ma di ribaltare un sistema corrotto. Poi esemplifica: un ministro delle infrastrutture non può dedicarsi a pannelli solari e ferrovie pendolari, perché il sistema non lo permette. Il sistema decide sui grandi progetti, un ministro non conta, deve accettare il gioco o cambiare mestiere. Amarezza per quanto aveva vissuto come delegato sindacale dell’autostrada ATIVA, costruita con fondi pubblici e ora controllata dal gruppo privato Gavio, il cui fondatore si rifugiò a Montecarlo durante l’inchiesta Mani pulite per una faccenda di tangenti, o mero cospirazionismo?

Luca Giunti con Gianluca Solera a Bussoleno (agosto 2012)

Per capirci di più vado a pranzo con Luca Giunti, in una trattoria davanti alla stazione di Bussoleno. Luca è un guardiaparco all’Orsiera Rocciavrè, ma la sua formazione di naturalista ne ha fatto uno dei tecnici di riferimento della Comunità montana. Se non fosse per i lupi risaliti dall’Appennino, che durante le sue escursioni gli fanno dimenticare il fondovalle, avrebbe già mollato tutto: ≪La valutazione di impatto  ambientale dell’opera è stata fatta in modo superficiale. Se non ci fosse una spinta dietro, la VIA sarebbe stata sufficiente per fermare il progetto. Prendiamo la discenderia alla Maddalena, un cantiere ridicolo rispetto all’opera complessiva. Il CIPE ha dato parere favorevole al progetto preliminare della tratta comune italo-francese subordinandola a 222 prescrizioni, di cui 180 sono sostanziali, il che vuol dire che il progetto “s’ha da rifare”. Nonostante il Consiglio di Stato, in altri casi, abbia sentenziato che, se un’amministrazione dà parere favorevole in presenza di un numero esagerato di prescrizioni, quel parere favorevole è invalido, non è successo nulla. Anzi, tutti gli enti si sono espressi favorevolmente.

Dopo la prima spaghettata, continua: La TAV non è figlia della geografia italiana, ma è espressione di una visione ottocentesca dello sviluppo economico, del Piano quinquennale, dell’industrialismo. Se sono in buona fede, pensano che porti sviluppo e lavoro, e se non sono in buona fede, sono dei ladri.

Come guardiaparco, Luca è un agente di Polizia, e se dovesse scoprire una prova, andrebbe dalla Magistratura.

Io so. Ma non ho le prove. Non sono un intellettuale come Pasolini, ma sappiamo come lui sapeva, perché questa roba non sta in piedi.

Ma com’è possibile che almeno un politico di Sinistra non capisca questo? gli chiedo, quando siamo al prosciutto.

Un politico del PD può essere convinto che realizzare un’infrastruttura e rimettere in piedi un polo industriale siano una buona cosa, ma tutto questo fa parte di un passato che non ha più il territorio del dopoguerra da conquistare, né industrie di avanguardia. Se questo politico invece è in malafede, vuol dire che fa quel genere di politica perché muove decine di miliardi di fondi pubblici, e che una parte andrà a beneficio del suo partito o del suo futuro politico.

un TGV proveniente da Milano imbocca il tunnel del Frejus in direzione Parigi a Bardonecchia

Nel frattempo, passa un TGV francese, diretto a Torino: guarda guarda, usa la linea esistente.

Il tempo delle grandi opere è finito, è iniziato quello delle tantissime, piccole opere. Se ho 100 da investire e ne metto 90 per il 10% della popolazione, vuol dire che favorisco un’élite. Mi sono sentito dire: siamo in democrazia, i rappresentanti eletti hanno deciso per quest’opera, e l’opera si deve fare. Non sono d’accordo con questa concezione dei rappresentanti del popolo. Se ho 100 e chiedo alla gente di farmi una classifica degli investimenti prioritari da fare, stai pur sicuro che la TAV o l’Expo di Milano staranno in fondo alla classifica, e davanti ci saranno probabilmente la scuola e i trasporti pubblici.

Forse, quei rappresentanti non fanno più gli interessi collettivi, ma altri, legittimi o illegittimi che siano. La consapevolezza arriva dall’esperienza diretta, mi aveva detto Federico Perotto, e le catastrofi aiutano. La Torino-Lione è stata questo per la gente della Val di Susa.

≪La TAV ci ha fatto del bene, costringendoci a uscire di casa, a spegnere la televisione, a discutere. C’erano sindaci che sfilavano contro la TAV e che poi approvavano impianti sciistici, o urbanizzazioni a capannone, progetti figli della stessa logica. Partecipare al movimento NO TAV ha fatto sì che ciascuno fosse costretto a discutere queste contraddizioni e a maturare una nuova consapevolezza≫ mi confessa Luca, prima di riprendere la strada verso monte.

Sabine, che non ha mai dimenticato quella volta in cui vide in un presidio due ultrasettantenni discutere di energia nucleare, sa che la ricchezza dello scambio trasforma: Perché ci vuole tempo, ma poi si rimettono in discussione molte cose, e ci si rende conto che non si può essere contro l’alta velocità e mangiare mozzarella a Parigi.

[…]

Sarà con Micol Maggiolini, ricercatrice che ha avuto l’opportunità di seguire i lavori dell’Osservatorio tecnico creato dallo Stato alla fine del 2005, dopo gli incidenti di Venaus, per riaprire il dialogo tra le parti, che avrò conferma di una verità. Ci diamo appuntamento a Porta Nuova, al mio ritorno dalla Val di Susa, e ci sistemiamo in un bar. Micol è una ragazza esile, apparentemente distratta, ma che maneggia i dati con precisione svizzera.

All’inizio, Governo e Ferrovie dissero che la linea era necessaria per far fronte all’aumento del traffico. Quando i tecnici confermarono che la linea esistente era sottoutilizzata, i promotori cambiarono discorso e iniziarono a parlare di linea strategica per attrarre nuovi flussi di traffico.≫

E l’Osservatorio?

≪Ha sempre avuto un’ambiguità di fondo. È nato per cercare di capire se la nuova linea servisse, ma in realtà se ne è progressivamente palesato l’obiettivo: discutere di come fare l’opera, non se farla. Non a caso Mario Virano, suo presidente, è stato in seguito nominato commissario per la realizzazione della Torino-Lione (un conflitto d’interessi, hanno fatto notare i valsusini).

L’Osservatorio istruisce la documentazione tecnica per decisioni che dovrebbero essere prese dal tavolo politico, ma questo tavolo in realtà recepisce le istruzioni dei tecnici. Per questo, la Bassa Valle, che fronteggia la prospettiva di vent’anni di cantieri, ha lasciato l’Osservatorio all’inizio del 2010, e la nuova Comunita montanà di Sandro Plano ha creato una Commissione tecnica alternativa, che legge e ribatte ai documenti dell’Osservatorio.

Ma tu che ne pensi? le chiedo.

Micol fa un respiro e dice: Secondo me, e rispondo da cittadina, è questione di interessi≫.

lo striscione di Presidio Europa ad una delle innumerevoli manifestazioni No Tav in Val di Susa

Sul treno, mugugnavo tra me e me: scavare, costi quel che costi, perché l’importante non è il perché si scavi, ma che si scavi. Ritornato a casa, ho cominciato a navigare su Internet e ho trovato cose interessanti: Negli ultimi trent’anni l’alta velocità è diventata uno strumento per la diffusione della corruzione e della criminalità organizzata […] Il tracciato della Lione-Torino si può sovrapporre alla mappa delle famiglie mafiose e dei loro affari nel ciclo del cemento≫ scrive Roberto Saviano. Bardonecchia è stato il primo Comune del Norditalia sciolto per mafia nel 1995, e la mafia lavora molto con il movimento terra. La linea TAV Napoli-Roma, la cui costruzione sarebbe stata controllata dal clan dei Casalesi, infiltrando le proprie imprese o imponendo tangenti alle ditte che concorrevano alla sua realizzazione, ci è costata circa 44 milioni di euro per chilometro. Questi interessi beneficiano dell’unitarietà di posizioni tra le segreterie nazionali, regionali e provinciali, che si rompe soltanto alla periferia di Torino. I partiti sono certamente affetti da una visione ideologica dello sviluppo e del trasporto, ma tutto questo non è forse sufficiente a spiegare perché siano tutti in favore della TAV.

Dubbi atroci mi tormentano quella notte: i partiti beneficiano dei grandi cantieri? Vi è un collegamento tra interessi mafiosi, benefici politici e interessi impresariali? Sfogliare i documenti governativi e le controdeduzioni della Commissione tecnica alternativa riempie di tristezza, tanto è facile con i dati alla mano ribattere al partito del traforo. Allora la Val di Susa c’entra, eccome, con le rivolte che hanno interessato molti Paesi del Mediterraneo.

La mattina del 19 agosto, mentre risalivo la valle, il disoccupato Angelo Di Carlo si spegneva, dopo essersi dato fuoco una settimana prima davanti a Montecitorio.

≪E non è successo nulla commentava Federico Perotto, ≪mentre nel Nordafrica dopo un atto simile c’è stata la rivoluzione.

Forse perché di soldi ne circolano ancora, se siamo disposti a spendere 164 milioni di euro per ogni chilometro della Torino-Lione. Ma le rivoluzioni non hanno gli stessi ritmi. Che quattro montanari abbiano rimesso in discussione l’avamposto della frenesia tecno-industriale europea è già una rivoluzione. Il problema di chi non vuole questa rivoluzione è arginarla laddove è nata, perché non arrivi al mare. Mediterraneo, per l’appunto.

24 febbraio 2015 – Gianluca Solera

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